Abramo e Mosé

di Furio Aharon Biagini

Abramo e Mosè

L’asino che Abramo aveva sellato con tatnta attenzione,
è lo stesso asino che ha portato Mosè il liberatore
in Egitto, ed è ancora lui che condurrà il Redentore ai suoi discendenti
Pirkè de-Rabbi – Eli’ezer, cap. 31

La letteratura biblica e l’ebraismo hanno sviluppato al centro della loro riflessione e della loro azione un’idea molto forte di futuro. Questo è evidente fin dalle prime parole con cui inizia la Torah: Bereshit, Col principio. Ciò presuppone che ci sarà una continuazione e una fine. Non solo, la maggior parte dei racconti che possiamo leggere nei primi cinque libri della Bibbia ebraica implicano dei viaggi: Abramo lascia la casa paterna, Giacobbe scappa dai suoi nemici, Mosé fugge dalle autorità egiziane, gli ebrei vagano per quaranta anni nel deserto. Dobbiamo sottolineare, tuttavia, che a differenza dell’Odissea, che narra il ritorno a casa di Ulisse, queste sono storie di un popolo che viaggia verso luoghi che non ha mai visto prima. Il tema del futuro è affrontato con profondità. I protagonisti non solo si spostano da una località all’altra, ma nel loro peregrinare sono testimoni di eventi straordinari e unici. Si tratta di avvenimenti che riguardano anche noi e ci costringono sia a rivedere le nostre convinzioni, sia a cambiare totalmente il nostro modo di affrontare la vita: la caduta, il diluvio, il Sinai. L’esito non ha niente a che vedere con la tesi di Tucidide per cui la storia è destinata a ripetersi, per l’ebraismo la storia si muove verso un tempo nuovo e migliore.
La Torah ci racconta l’avventura di Abramo dopo il diluvio e l’episodio ella torre di Babele. Anche Adamo, il padre della prima umanità, e Noé, il capostipite della seconda e definitiva umanità, avrebbero potuto dare inizio ad una nuova fase storica per l’umanità, ma nessuno dei due possedeva le virtù ideali e morali, le capacità, l’originalità tali da rappresentare un momento positivo nella storia. Abramo non solo le possiede, ma le concretizza nella sua vita. Dobbiamo ricordare, come scriveva Martin Buber, che “la dottrina dell’ebraismo è una dottrina sinaitica, una dottrina mosaica. Ma l’anima dell’ebraismo è pre sinaitica; è l’anima che entrò nel Sinai e là ricevette quello che ricevette; è più vecchia di Mosé, è ancestrale, è un’anima abramitica”. La possibilità di crescita e di benedizione per l’umanità, il futuro dunque del genere umano, verrà da Abramo, colui che è capace di lasciare la grande città di Ur, di uscire dalla civiltà urbana che desidera costruire la torre, anche se animata dalla nobile intenzione di cercare l’assoluto, ma non lascia spazio al dissenso, alla ricerca della verità al di fuori degli schemi prestabiliti. Abramo è obbligato ad andarsene per fondare una società diversa, poiché la sua ricerca non sarebbe stata possibile in una realtà totalitaria. HaShem, il Signore, preferì che gli uomini potessero cercare liberamente il loro cammino verso di Lui. Se questa idea comporta certamente alcuni rischi, la Torah sembra indicare che i pericoli del linguaggio unico sono ben maggiori. La Shoah e i gulag staliniani ci hanno mostrato, purtroppo, come ciò fosse una minaccia reale.
“Il Signore disse ad Abramo: vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che Io ti indicherò. Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra. Allora Abramo partì, come gli aveva ordinato il Signore, e con lui parti Lot. Abramo aveva settantacinque anni quando lasciò Charan” (Genesi, 12, 1-4). E’ con queste parole che inizia l’avventura profetica. Esse sono indirizzate ad Abramo di cui ancora non sappiamo alcunché se non che è figlio di Terach. Per inciso, una cosa spesso dimenticata è che non è Abramo, il futuro grande patriarca, a lasciare Ur in direzione di Canaan, ma proprio suo padre Terach, dipinto dalla tradizione esegetica come idolatra e venditore di idoli. Non sappiamo il motivo di quel viaggio, forse perché con una presa di coscienza tardiva aveva maturato anche lui dubbi nei confronti delle divinità del suo paese. In un Midrash (Bereshit Rabba) è raccontato il processo di critica della religione del suo paese che Abramo matura e che coinvolgerà anche il padre: “Il padre di Abramo era un idolatra che costruiva idoli. Una volta che uscì e lasciò Abramo a vendere al suo posto, si presentò un uomo che voleva comprare la statuina di un idolo. Abramo gli parlò: ‘Dimmi uomo quanti anni hai?’. Lui rispose: ‘Tra i cinquanta e i sessanta?’. ‘Guai all’uomo’, disse Abramo ‘che ha sessanta anni e vuole comprare un’immagine che ha solo un giorno?. L’uomo si vergognò e se ne andò per la sua strada. Un’altra volta venne una donna con in mano una ciotola di farina che disse ad Abramo: ‘Va’ e portala in sacrificio agli idoli’. Abramo prese un bastone e infranse quasi tutte le statuine degli idoli deponendo infine il bastone nella mano dell’idolo più grosso. Quando suo padre tornò disse: ‘Chi è stato?’. ‘Come posso negartelo?’, replicò Abramo, e proseguì: ‘E’ venuta una donna con una grossa ciotola di farina e mi ha detto: prendi e portala in sacrificio agli idoli. Io l’ho portata agli idoli e loro hanno iniziato a litigare. Ognuno di loro diceva: mangio prima io! Alla fine questo grosso si è alzato, ha preso il bastone e ha distrutto tutti gli altri idoli’. ‘Perché ti burli di me? Questi sono di legno e pietra!’. ‘Lascia che le tue orecchie odano quello che afferma la tua bocca!’ rispose Abramo”. O forse Terach si mise in viaggio solo per accompagnare il figlio attratto dal richiamo divino; probabilmente a causa dell’età avanzata si fermerà a Charan, luogo intermedio tra Ur e Canaan, dove i patriarchi cercheranno più tardi le spose per i loro figli.
Si tratta, dunque, di una partenza, della rottura con l’ambiente sociale che circonda Abramo e la sua famiglia, rottura con il suo paese, con la sua patria, infine, con la casa di suo padre, per andare verso una destinazione sconosciuta: “Verso il paese che Io ti indicherò”. Non si tratta di un semplice viaggio di un semplice spostamento da un luogo a un altro. E’ un viaggio che si sta già compiendo da tempo attraverso le domande critiche che Abramo si pone sulle pratiche religiose della sua società: “E lo portò fuori (Abramo) all’aperto. Disse allora Abramo al suo cospetto: ‘O Padrone del mondo, ho guardato nella mia costellazione e non ho altro che un figlio’. Gli disse il Santo, che benedetto sia: ‘Esci dall’idea di ritenerti sottoposto all’influenza delle costellazioni, non vi è costellazione che domini sulla sorte del mondo’”. (Nedarim 32°). Una divinità sconosciuta gli ha parlato, egli ha udito la voce e obbedisce lanciandosi con la famiglia sulle piste del deserto. Il testo biblico e i Maestri ci ricordano che la chiamata è una scelta del Signore ma è anche il risultato di un’azione e di una scoperta dell’uomo. E’ necessaria la parola del Signore, ma è necessario anche l’orecchio che ascolta e agisce. Abramo fa quello che gli viene detto perché sa ascoltare.
Abramo è il primo che si scaglia contro l’idolatria, il primo ribelle a insorgere contro l’autorità e la società. Il primo a demitizzare i tabù ufficiali e a rimuovere i vecchi rituali. Il primo a rifiutare le idee della maggioranza per formare una minoranza di uno. Il primo credente che, solo contro tutti, si dichiara libero. Solo contro tutti afferma che il Signore è Uno e che è presente ovunque lo si invochi, che il mistero del cielo si ricongiunge con quello dell’uomo. E’ in questo contesto che in Genesi 14, 13 Abramo viene qualificato ‘ivri, ebreo. In proposito nel Midrash si trova il seguente insegnamento: “(Che significa l’Ebreo?)
Rav Yehuda dice: ‘Il mondo intero è da una parte lui dall’altra?.
Rav Ne’hemia dice:’Era uno dei discendenti di ‘Ever’.
I Saggi dicono: ‘Era dall’altra parte del fiume (l’Eufrate) e parlava l’ebraico’”.
Queste indicazioni evidenziano, in modo preciso la situazione esistenziale di Abramo quando inizia il suo viaggio. E’ discendente di ‘Ever nominato in Genesi 11, 14, come nato dalla stirpe di Sem, parla l’ebraico, lingua profetica che precede la confusione delle lingue di Babele, viene da un luogo che è al di là e che, dunque, nella terra di Canaan è uno straniero residente, Gher ve-toshav, come si definirà lui stesso in Genesi 23, 4 quando chiederà ai chittei, abitani di Hebron, di poter avere in proprietà un sepolcro per Sarah sua moglie, dopo che era morta in quella città. Da un lato egli è nel mondo, vi abita nella continuità delle generazioni, in relazioni con altri popoli e altre culture, partecipando attivamente agli eventi del suo tempo, agendo in modo libero; dall’altro guarda a un al di là rispetto al mondo, ascoltando le parole di un divino trascendente. Abramo diverrà sia il progenitore di un popolo che vivrà nel mondo accanto ad altri popoli, con la sua storia e la propria cultura, sia l’archetipo dell’uomo che ha fiducia nel Signore che gli si rivolge senza lasciarsi vedere, non racchiudibile in una immagine o in una formula. Egli instaurerà il progetto messianico della storia di Israele, che l’oppone all’imperialismo del mondo intero, fino al suo compimento ultimo.
Da Abramo a Mosè la Torah ci descrive le vicende degli altri patriarchi, una sorta di Odissea ebraica, un’epopea intimistica e familiare, una bellissima pittura di costumi, una narrazione di fatti commoventi e una ricca varietà di caratteri. Cronologicamente e per la sua importanza storica, Mosé è il primo legislatore come Abramo è il padre della fede. Un famoso Midrash del Talmud babilonese, Menachot 29b, racconta che Mosé salito in cielo trova il Signore occupato ad attaccare delle coroncine alle lettere della Torah. Mosé chiede il senso di tutto ciò e il Signore risponde che verrà un giorno un uomo di nome Akiva’ ben Josef che in ogni parola, in ogni sillaba, in ogni lettera della Torah avrebbe dedotto tante nuove interpretazioni. Mosé chiede al Signore di poter vedere questa persona e il Signore gli concede di entrare nella scuola di Rabbi Akiva’. Mosé si siede a uno dei banchi, ma non comprende assolutamente nulla della lezione che il Rabbi sta insegnando e un senso di tristezza lo pervade. In quel preciso momento i discepoli chiedono a Rabbi Akiva’ da dove egli deduca le sue argomentazioni e lui risponde: “Le ho ereditate dai miei Maestri, che l’appresero dai loro, i quali a loro volta si richiamavano a Mosé. Quello che io vi dico, Mosé l’ha udito sul Sinai”. Solo allora Mosé, rassicurato sulla continuità della Tradizione, si tranquillizza.
Moshè Rabbenu, Mosé nostro Maestro, è il protagonista più solitario e più potente della storia biblica. I testi dell’Esodo, del Levitico, dei Numeri e del Deuteronomio ci descrivono l’epopea del liberatore del suo popolo, il cui nome significa “tratto dalle acque” o “colui che trarrà dalle acque”, che strappa dalla schiavitù egiziana. Il racconto mette l’accento sulla intimità della relazione di Mosé con Adonai: gli parla direttamente, contempla la sua gloria e le ultime parole del Deuteronomio affermano che nessuno in Israele è simile a Mosé che Adonai ha conosciuto faccia a faccia. “Questa è la Legge che Mosé ricevette sul Sinai” comporta inevitabilmente la fine della discussione. Fonte di tutte le risposte è anche l’origine di tutte le domande. L’ispirazione di Mosé è descritta come una realtà così potente che può spandere il suo soffio sui settanta anziani di Israele che si mettono anche loro a profetizzare (Numeri, 11, 25). Nel Roveto ardente, Mosé non vede Adonai in sogno né nella sua immaginazione, ma gli parla direttamente. I dialoghi sono molto precisi: “Adonai parla a Mosé faccia a faccia, come l’uomo parla al suo amico” (Esodo 33, 11). Il testo pone tuttavia una restrizione a questa intimità: Mosé non ha potuto vedere il volto di Adonai perché l’uomo nessun uomo può vederlo e vivere (Esodo 33, 20 – 23). Con queste parole la Torah afferma allo stesso tempo la trascendenza e l’immanenza di Adonai.
I testi lasciano supporre che è il più grande tra i profeti che vede l’avvenire e fa grandi prodigi. E’ l’uomo del dialogo con Elohim, colui che riceve e trasmette a Israele il suo vero nome: Adonai, il Tetragramma impronunciabile. Un nome se non nuovo, perlomeno nuovamente rivelato, che prende il posto dei precedenti o, piuttosto, viene loro preferito: “Sono apparso ad Abramo, ad Isacco e a Giacobbe come l’onnipotente, ma non sono stato conosciuto da loro con il mio nome, Adonai” (Esodo 6, 3). E’ l’uomo che da solo cambiò il corso della storia, dopo di lui niente fu più come prima. I Maestri, con una ingegnosa parabola, paragonano le rivelazioni anteriori a Mosé alle bottiglie che il padrone di casa offre ai suoi ospiti, mentre la rivelazione sianitica è come a botte che viene svuotata dal suo squarcio aperto. Mosé ha parole che stupiscono per il loro ardire e con lui i patriarchi sono superati. La Tradizione ci descrive, tuttavia, oltre alle sue qualità anche i suoi difetti e le sue debolezze, la sua natura sofferta e contraddittoria. In diverse occasioni del racconto biblico si sottolinea le sue esitazioni, i suoi cedimenti, i suoi accessi d’ira. Un gigante recalcitrante lo definisce Rav Riccardo Di Segni che ad ogni passo deve essere spinto al suo destino di guida dal Divino, che promuove il processo di liberazione contro tutti: la malvagità degli uomini che mettono in schiavitù, la rassegnazione degli oppressi che non vogliono essere più liberati, la fuga dalle responsabilità dei capi. A volte si ha persino l’impressione che i Maestri cerchino di convincerci che non fosse veramente qualificato per guidare il suo popolo fuori dall’Egitto. Eppure se non fosse stato per lui Israele sarebbe rimasto una tribù di schiavi oscurata dalla paura e timorosa della luce. I suoi contemporanei, però, non arrivarono a comprenderlo e ad amarlo e in ripetute occasioni gli si ribellarono, cercando di sottrarsi al destino storico che Mosé per ordine divino aveva segnato. Non è un caso se la Torah dice che alla morte di Aharon, suo fratello, “tutta la casa di Israele lo pianse per trenta giorni” (Numeri 20, 29) mentre per Mosé è detto “che i figli di Israele lo piansero per trenta giorni” (Deuteronomio 34, 8). Il protagonista della liberazione era stato anche l’uomo che con tutto il suo amore per il suo popolo non aveva accettato compromessi e per questo inevitabilmente non poteva essere amato da tutto Israele.
“Mosé non è il capitano o il conquistatore”, scriveva Dante Lattes, “ma il redentore e il maestro; non esaspera la coscienza nazionale d’Israele per trarne dei soldati, ma per crearne la materia e l’oggetto di un esperimento per l’attuazione dell’idea, per farne i pionieri della volontà di concretamento del divino nel mondo. La sua concezione del mondo… doveva essere non la base teorica di una dottrina di fede, ma il punto di partenza di una legislazione e doveva effettuarsi in tutta la vita del popolo. La religione non è soltanto un ideale a cui si aspira, ma un ideale che quotidianamente e immediatamente deve essere attuato”. L’influenza di Moshè Rabbenu sfugge alla durata, risuona al di là del tempo. La legge porta il suo nome, il Talmud non ne è che il commento, la Cabbalà non ne comunica che il silenzio.
Le vicende di Abramo e di Mosé rendono per la prima volta reale la storia alla coscienza umana, con il futuro che dipende veramente da ciò che facciamo nel presente. Il movimento è quello del tempo che, una volta passato, si fa storia; non è ciclico, non è un eterno ritorno. Ogni singolo momento, come ogni singola personalità, è unico e singolare. E’ un processo che va da qualche parte anche se non saprei dire dove. E poiché non è ancora giunto alla sua conclusione, è pieno di speranza, e siamo liberi di immaginare che sarà qualcosa di nuovo e sorprendente.