Dopo gli attentati: veglia e torpore

(articolo pubblicato marzo 2015 in HaKeillah, Bimestrale del Gruppo di Studi Ebraici di Torino)

L’effetto dello shock che ha seguito i fatti di Parigi va progressivamente riducendosi, man mano che il tempo passa e la gente ritorna alla normalità. Ma è proprio adesso, a testa fredda e cuore calmo, che bisogna sapersi interrogare. Sul passato, sul presente, sul futuro. Mi pare, infatti, evidente che quanto accaduto in Francia non sia un episodio isolato, ma appena la punta di un iceberg di qualcosa di molto più profondo. La tempestiva azione del governo francese nell’affrontare la situazione di grave crisi sembra aver rassicurato molte persone. Il nostro istinto di sopravvivenza ci spinge in questa direzione, perché sarebbe difficile, altrimenti, vivere con la consapevolezza di un grande pericolo, mentre ogni essere umano ha bisogno di sentirsi fiducioso per costruire il proprio futuro. Ma l’ebraismo, da sempre, è fondato su una buona dose di diffidenza verso gli istinti e le tendenze naturali. “E voi non vi distrarrete seguendo il vostro cuore e seguendo i vostri occhi, dietro i quali vi prostituireste” (Numeri 15:39).

Purtroppo sovente gli ebrei hanno avuto una visione alterata di quella che è la realtà. La Torà ci mostra, infatti, questo popolo liberato dalla schiavitù che passava la maggior parte del suo tempo a lamentarsi e a rimpiangere l’Egitto, il vitto abbondante e la vita tranquilla che vi trascorreva. Si trattava probabilmente di una idealizzazione del passato, che generava una visione ottimistica di un futuro in cui gli ebrei, tornati in Egitto, avrebbero potuto essere accolti diversamente. D’altra parte, il Faraone non aveva forse inseguito i figli di Israele per convincerli a tornare?

Il popolo ebraico nel deserto continua, quindi, ad essere attratto dalla calamita egiziana verso la quale spera di tornare, soltanto perché, a causa della durezza di questo lungo peregrinare, ha bisogno di idealizzare l’Egitto che in passato lo aveva accolto, nutrito, apprezzato. Ma ecco che “sorse in Egitto un nuovo Faraone che non conosceva Giuseppe” (Esodo 1:6). A volte i tempi e le condizioni sociali cambiano e un luogo che prima favoriva una vita ebraica diventa minaccioso e irto di pericoli. È lecito chiedersi se oggi qualcosa di simile non stia succedendo in Europa, in generale, e in Francia, in particolare.

Ma perché sempre gli ebrei? Siamo ben consapevoli che tutta l’Europa subisce gli effetti di una crisi che non è esclusivamente economica, ma anche e, soprattutto, identitaria, una crisi che pare rimettere in questione la sua natura e le sue basi democratiche. Tuttavia, gli ebrei restano sempre, a volte soli a volte in compagnia, nel mirino degli artigiani dell’odio. La giustificazione classica è: a causa dell’antisemitismo, che si nutre dei conflitti religiosi e intercomunitari, e a causa del conflitto israelo-palestinese. Questa risposta contiene, però, una profonda imprecisione. Più che di antisemitismo si tratta a nostro avviso di antiebraismo. Gli ebrei sono ben lontani dall’essere tutti “semiti”, così come molti semiti non sono affatto ebrei. Gli ebrei, cioè, sono presi di mira non tanto in quanto individui o membri di una classe sociale o di un gruppo etnico, ma proprio in quanto portatori e custodi di una cultura, l’ebraismo, che non è semplicemente una religione, né una forma di teologia politica, ma piuttosto un modo di rivolgere il proprio sguardo verso il mondo e verso l’essere umano. Precisamente questo sguardo non è mai stato perdonato all’ebraismo e agli ebrei che ne sono i portatori.

Un ebraismo inteso in primis come pratica culturale (e non soltanto come religione da professare) finisce inevitabilmente per decostruire le diverse forme di idolatria, cioè le abitudini, le tradizioni e alcuni dei valori dominanti nelle società dei gentili. È, dunque, questo aspetto che le società non hanno mai tollerato perché foriero di un pensiero critico e libertario. L’ebraismo è per sua natura iconoclasta: distrugge gli idoli ideologici, non teme di mostrarne i pericoli e nega l’onnipotenza dell’uomo, delle sue istituzioni e di tutti i sistemi di pensiero che possiamo definire “totalizzanti”. Contrastare l’idolatria significa proprio favorire un atteggiamento di resistenza alle norme e alle convenzioni della maggioranza, pratica che si spinge ben al di là dell’ambito strettamente religioso. I Saggi hanno spiegato che la parola Sinai è simile alla parola Sin’à, odio (TB Shabbat 89a), sottolineando che questa caratteristica di resistenza e di autonomia dello spirito, che proviene dalla nostra tradizione, avrebbe necessariamente generato una reazione di odio presso gli altri, poiché l’ebraismo è nella sua essenza spirito di protesta, di disobbedienza e di dissenso e, dunque, atto di resistenza.

Il patriarca Abramo lascia il suo paese natale per sottrarsi al modello culturale mesopotamico che vuole che il destino di un uomo sia deciso dagli astri ed è immaginato dai Maestri come un uomo che frantuma letteralmente gli idoli del padre. Mosè uccide volontariamente un egiziano per sottolineare il fallimento di quel modello sociale che legittima l’ineguaglianza tra gli uomini. Prima di uscire dall’Egitto, gli ebrei devono prendere e custodire per tre giorni un agnello, animale considerato sacro dagli egiziani, per poi sacrificarlo, allo scopo di uccidere simbolicamente l’idolatria nella quale è possibile dominare e umiliare l’altro, negando il suo diritto a esistere. L’ebraismo ha sempre agito come forza di resistenza contro tutte le forme di pensiero unico.

Passando dall’antico Egitto alla situazione attuale, vediamo che il modello francese di integrazione è del tutto fallito e non è detto che si riesca a elaborarne uno nuovo prima che sia troppo tardi. Anche l’idea di laicità che è stata sostenuta in questi anni non ha avuto successo, probabilmente perché non è né realistica né ragionevole e, in taluni casi, viene applicata in modo inefficace, infatti, nonostante la proibizione dei simboli religiosi nei luoghi pubblici, non è raro che nelle scuole della Repubblica gli alunni preparino il Natale per un intero mese scolastico. Questo discorso meriterebbe, naturalmente, un maggiore approfondimento, ci basti dire in questa sede che tale modello assimilazionista, in cui qualsiasi diversità è negata e soffocata nel nome di un malinteso senso dell’uguaglianza, quand’anche non venga ridotto a pura retorica, non possa comunque funzionare in un mondo in cui, al contrario, cresce il bisogno di identità, soprattutto presso le nuove generazioni che crescono lontano dalle loro radici senza essere veramente integrate nelle società europee. Il modello francese chiede a ogni gruppo di negare la propria specificità e quindi la propria esistenza “particolare”, richiesta che oggi appare obsoleta e, in fondo, anche assurda. Inoltre, questo modello di laicità, basato su una netta separazione tra la sfera pubblica e quella privata, può difficilmente essere applicato a delle culture che, come l’ebraismo, non sono limitate al campo della religione, finendo quindi col mettere in evidenza una profonda incomprensione di queste stesse culture. Anche dopo i fatti di Tolosa, non sembra che il governo e i cittadini francesi abbiano valutato la gravità del processo in corso. Per citare lo storico Georges Bensoussan “si è fatto come il solito in questo Paese, abbiamo rifiutato di vedere e di dare un nome, abbiamo gettato la polvere sotto il tappeto. Non abbiamo fatto altro che rinviare l’esplosione”.(http://www.marianne.net/ou-sont-territoires-perdus-republique-2015).

Inoltre, nelle grandi manifestazioni che hanno seguito gli attentati c’erano molti meno meno “Je suis juif” che “Je suis Charlie”, cosa che non è sfuggita alla stampa internazionale. Questo dimostra che, nonostante tutto, il fatto di essere assassinato in quanto ebreo è un fatto, certamente poco simpatico, ma che rientra nelle abitudini ed è quindi tollerabile, mentre non lo è, nel caso in cui vengano uccisi dei giornalisti.

Ci sembra, infine, fondamentale che gli ebrei non si facciano sedurre dagli slogan pronunciati con troppa facilità da alcuni membri del governo e dalle promesse rassicuranti che li accompagnano. Occorre considerare seriamente la possibilità che la Francia, come forse anche altri Paesi europei, possano non essere più luoghi sicuri per i cittadini ebrei. Dobbiamo chiedercelo soprattutto per le future generazioni, che rischiano di pagare il prezzo delle nostre attuali scelte.

Non sappiamo dove questi interrogativi ci condurranno, ma nello stesso tempo è bene continuare a interrogarci, senza il timore di dispiacere a qualcuno, né agli uomini né e Dio, che ha mantenuto in vita l’essenza del popolo ebraico. E non si tratta in questo caso di un semplice problema di sopravvivenza, ma piuttosto di riuscire a trovare dei contesti in cui sia possibile vivere ed esprimersi pienamente, affinché non si creda di vivere, mentre non si fa che sopravvivere. Per questo serve agli ebrei di oggi una riflessione profonda, per mantenere uno stato di veglia vigile e non di torpore.