Fraternità

di Furio Aharon Biagini

Il tema della fraternità nell’Ebraismo

“Ama il tuo prossimo; egli è come te. Che cosa vuole insegnarci il Creatore con queste parole? HaShem vuole dirci: Io vi ho creati entrambi come portatori della mia immagine, cosicché ogni odio per il prossimo non è altro che odio mascherato per HaShem. Se serbi rancore al tuo prossimo per qualcosa, se lo insulti, se lo detesti o lo disprezzi, in realtà fai tutto questo alla scintilla divina che arde nel suo cuore conferendogli la nobiltà della natura umana”.
Joshua Heschel,

Benché il concetto di fraternità sia importante nel giudaismo, il termine Achavva (fraternità) appare una sola volta nel Tanaq, la Bibbia ebraica, a proposito della “fratellanza tra Giuda e Israele” (Zaccaria 11, 14). Il termine è anche presente nell’ultima delle sette benedizioni recitate su una coppa di vino in occasione del matrimonio: “Tu sei fonte di benedizione, o Eterno, nostro Signore, Re del mondo, che hai creato la gioia e la felicità, lo sposo e la sposa, la festosità e l’allegria, l’amore e la fraternità, la pace e l’amicizia”.
Nella Torah il legame di fraternità, espresso dall’utilizzo della parola Ach (fratello) o Achot (sorella) va al di là di quello parentale e unisce tutto il popolo di Israele. Ach è speso sinonimo di Rea amico (tradotto anche prossimo, ma su questo termine ritorneremo più avanti). Per dire da “l’uno all’altro” l’ebraico dice letteralmente da “un uomo a suo fratello” o da “una donna a sua sorella”.
Per la Torah la fraternità è dunque questo legame di somiglianza che ci unisce all’altro, somiglianza di sangue, ma anche di diritti e di doveri quanto al nostro ruolo in questo mondo. Tutti gli esseri, che sono identici ma non uguali, sono legati da un rapporto di fraternità. Le storie della fraternità raccontate nella Torah (Caino e Abele, Ismaele e Isacco, Esaù e Giacobbe, Giuseppe e i suoi fratelli) ci danno la chiave per comprendere come riuscire in questo sentimento: l’accettazione del fratello, l’accettazione della differenza di questo altro che ci assomiglia. Ricordiamo la risposta che Caino da all’Eterno quando questi domanda della sorte di Abele: “Sono io il guardiano di mio fratello?” (Genesi 4, 9); il racconto ci mostra che la fraternità non è qualcosa di innato, ma piuttosto il risultato di un lungo processo in cui l’uomo prende a riconoscere e a dominare le sue pulsioni omicide per arrivare alla rivelazione di una fraternità plurale che è il progetto del messianismo.
Se analizziamo il testo della Torah troviamo una serie di infinità di regole che riguardano il rapporto tra gli esseri umani mentre pochissime quelle relative al rapporto tra l’uomo e il suo Creatore. Questo perché il compito che sulla terra è stato affidato all’uomo, creato a immagine e somiglianza di HaShem, è quello di gestire una vita sociale nei confronti del proprio prossimo.
La fraternità diviene allora una virtù, una qualità positiva, una tappa sulla via della realizzazione della creatura verso il suo creatore. Essere fratelli è essere simili in quanto differenti. L’alterità di nostro fratello invece di aggredirci deve arricchirci a tutti i livelli.
La tradizione rabbinica ci insegna che la nostra relazione di fraternità non si ferma ai nostri vicini ebrei, ma si rivolge a ogni essere umano. Un Midrash (commentari esegetici rabbinici) riportato nel Talmud (studio, insegnamento, dottrina) in Sanhedrin 39b dice: “Dopo il passaggio del Mar Rosso gli angeli volevano intonare un canto di gioia davanti al Signore. L’Eterno disse: Le opere delle Mie mani annegano nel mare (si riferisce agli egiziani) e voi volete intonare un canto?”. L’amore è un atto divino. Amare fraternamente l’altro è realizzare la nostra natura divina e riconoscerla nell’altro.
La Mishna (insegnamento a voce e appreso a memoria), in Sanhedrin IV, 5, ci dice: “E’ per questo che Abramo è stato creato unico, per insegnarci che chi uccide una persona è come se uccidesse il mondo intero, e chi fa vivere una persona è come se avesse fatto vivere il mondo intero. Inoltre, affinché nessun uomo dicesse al suo prossimo: mio padre è più grande del tuo”. Non esistono esseri umani superiori agli altri; siamo tutti uguali quale che sia il nostro sesso, la nostra appartenenza etnica, la nostra religione.
Per l’ebraismo, dunque, tutti gli esseri umani sono fratelli; fratelli nei loro diritti, ma anche nelle loro responsabilità verso l’altro e verso il mondo in generale. La fraternità è un dovere d’equità verso l’altro; ciò che manca a un fratello manca a me. Il giogo della fraternità poggia sulle nostre spalle.
La Torah ci racconta (Esodo 4, 14) che nel momento in cui Moshé Rabbenu prova a rifiutare l’incarico di guidare il popolo ebraico viene rassicurato dal Santo benedetto Egli sia che Aharon, suo fratello maggiore, gli sarebbe andato incontro ed avrebbe gioito nel suo cuore. Probabilmente Moshé non vuole usurpare il ruolo di leader che a suo avviso avrebbe dovuto andare a suo fratello perché più grande, perché ha sempre vissuto in Egitto e condiviso con il popolo la persecuzione del faraone, infine, perché parla meglio di lui (Moshé è balbuziente). Proprio in virtù di questa gioia per l’investitura di Moshé (è facile essere solidali nel dolore e nella disgrazia, il testo ci insegna che la vera sfida è quella di riuscire ad affratellarsi nella gioia), Aharon avrà il merito di portare nel suo cuore “tutti i nomi dei figli di Israele” (Esodo, 28, 30) incisi sulle pietre incastonate sul pettorale del giudizio attraverso i quali, come Sommo Sacerdote, interpretava la volontà divina. I nomi dei figli di Israele si trovavano sul petto, ma anche sul dorso del Sommo Sacerdote, come ad indicare che chi fa mostra dei figli di Israele ne deve al contempo sostenere il peso e la responsabilità sulle spalle.
Il concetto di responsabilità, Arevut in ebraico, è forse una delle istituzioni più grandi dell’ebraismo ed è la base del comportamento del popolo ebraico verso il prossimo e un esempio che gli altri popoli dovrebbero seguire. E’ scritto “Israel arevim ze ba ze”, “ogni ebreo è responsabile dell’altro”, è garante dell’altro. Quando si parla di ebraismo non ci si riferisce quasi mai al singolo individuo ma al “Kelal Israel”, la comunità ebraica; ogni ebreo è responsabile dell’intero popolo ebraico. Questo vuol dire che ogni persona di Israele si impegnerà a prendersi cura e di operare per ogni singolo membro della comunità per soddisfare tutte le sue necessità, non meno di quanto ognuno deve prendersi cura delle proprie necessità. Secondo la Halakhah, la legge ebraica, dobbiamo aiutare ogni persona che si trovi nel bisogno, ebreo o non ebreo. Essere momentaneamente aiutato e preso in carico è un diritto inalienabile, “perché non mancherà mai nel paese chi ha bisogno; per questo ti ordino: apri la mano al tuo fratello, ai poveri del tuo paese” (Deuteronomio 15,11). E’ questo il concetto della Tzedakah che ricorda le idee di giustizia e di rettitudine come esprime il versetto biblico “la giustizia, la giustizia tu cercherai” (Deuteronomio 16, 20). Il testo contiene l’invito a un comportamento etico in seno alla famiglia come nella società, nel campo degli affari, della politica e della giustizia. Il concetto di Tzedakah come atto di carità è una estensione dell’idea originale di giustizia e di equità. Il termine viene tradotto con carità, ma il senso vero è quello della giustizia e sta a ricordarci che “la terra nella sua totalità appartiene al Signore” (Salmo 24, 1). Poiché tutto appartiene al Creatore, noi siamo i gestori dei suoi doni ed è nostro dovere – si tratta quindi di una Mitzvah – di dividere con gli altri ciò che pensiamo sia nostro. Chi non divide con l’altro ciò che il Signore ci dona compie quindi un atto di ingiustizia, prima ancora di dar prova di insensibilità allo sconforto del suo fratello, sia esso ebro o no.
L’amore fraterno verso l’altro è una costante nella Torah, nel Levitico 19, 18, si legge: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”, ugualmente in Deuteronomio 10, 19,: “Amerete lo straniero poiché stranieri sieste stati nella terra d’Egitto”. Per Hillel era l’essenza del messaggio biblico. Una storia talmudica (Shabbat 31a) racconta che a un pagano che desiderava conoscere l’intera Torah rispose: “Ciò che non è buono per te non lo fare al tuo prossimo. Il resto è commento. Vai e studia (la Torah)”. Il Talmud si domanda quale versetto della Torah sia il più importante e in proposito riporta una discussione tra due maestri Rabbi Aqivà e Ben Azai. Per il primo il versetto più importante è: “Amerai il tuo prossimo come te stesso” mentre per il secondo è un versetto meno noto: “Questo è il libro della genealogia di Adamo”. Il versetto che cita Rabbi Aqiva in realtà è ben più lungo: “Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore”. Nel testo originale la parola ebraica per prossimo è Rea che non indica il prossimo, che sarebbe Qarov, ma l’amico, il compagno. Rea ha la stessa radice di Ra che significa male. L’amico è un amico, ma può potenzialmente fare anche del male. L’amicizia non è mai definitivamente acquisita, ma si conquista e si guadagna continuamente. Inoltre, il verbo è al futuro – “e amerai” – perché amare il prossimo non è un imperativo, ma è una conseguenza. Rileggiamo il versetto: “Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore”. Rea è proprio l’amico, ma come ogni essere umano è potenzialmente capace di fare del male e se fa del male non dobbiamo vendicarci. Se siamo capaci di non vendicarci, allora possiamo considerarci persone che portano amore. L’amore non è un sentimento, commenta il rabbino Marc-Alain Ouaknin, ma una qualità delle nostre relazioni con gli altri. Il versetto definisce l’amore come il risultato di diversi atteggiamenti, tra cui il rifiuto della vendetta e del rancore. Si tratta di vincersi, di dominare le proprie passioni.
Per Ben Azai invece il versetto “Questo è il libro della genealogia di Adamo” insegna che bisogna avere a cuore la genealogia, quelle lunghe liste di nomi, perché così si comprende che ogni nuova nascita porta al mondo una luce, unica e particolare. Ognuno è unico ed è per questo che lo si ama. Questo concetto è per Ben Azai superiore perché ritiene “e amerai” troppo freddo e non attento alla singolarità di ogni persona. L’amore è l’attenzione che si ha per una persona o per un’altra, un’attenzione unica, sempre diversa. L’attenzione per il suo viso, la sua voce, per il modo tutto particolare che ha di stare davanti a me. L’insegnamento che impone di non vendicarsi dipende troppo da colui che ama, gli chiede uno sforzo personale. Non dipende abbastanza da chi è amato. Amare sarebbe quindi scoprire nell’altro ciò che fa di lui un essere unico, come non ce ne sono stati prima e come non ce ne saranno mai dopo. Ognuno di noi deve avere la consapevolezza di essere l’anello di una catena lunghissima che ci precede. Il tempo acquista, per così dire, uno spessore, è possibile vivere in modo sereno e acquisire quella pazienza che conduce a ciò che la Torah chiama amore.
L’amore per l’altro che conduce al sentimento di fraternità è dunque fondamentale nel giudaismo e anche numerosi riti ce lo ricordano. Per esempio, durante la festa di Sukkot, la festa delle capanne che ricorda il periodo trascorso nel deserto dopo l’esodo dall’Egitto, ricorrenza che cade il 14 del mese di Tishri, per il calendario civile tra settembre e ottobre, gli uomini si recano in sinagoga con un Lulav. Il Lulav è un ramo di palma da tenere in mano assieme a quattro altri elementi: tre rami di mirto, due rami di salice, tenuti insieme alla palma da legamenti vegetali e l’etrog un cedro. Il cedro è un frutto che emana un buon profumo e simboleggia l’uomo che studia la Torah e la pratica. Il ramo di palma proviene da un albero che da frutti ma non profumano, è l’ebreo semplice che pratica ma senza conoscere troppo della Torah. Il mirto manda un buon odore ma non da frutti, è l’ebreo che conosce ma non pratica. I rami di salice vengono da un albero che non da frutti né profuma, è l’ebreo che non conosce la Torah e non pratica. Questa composizione che durante il rito si agita in direzione dei quattro punti cardinali sottolinea che tutti gli individui quale che sia la loro conoscenza della Torah o il loro livello di pratica religiosa sono fraternamente riuniti, nessuno è escluso dalla comunità.
Chiudo con un racconto chassidico: “Un giorno i discepoli chiesero al rabbi di Slozow: Nel Talmud è scritto che il nostro padre Abramo ha compiuto tutta la Torah. Come è possibile questo, se a quell’epoca essa non era ancora stata data? Il rabbi rispose: Non bisogna fare altro che amare il Santo Benedetto Egli Sia e le sue creature! Se vuoi fare qualcosa e ti accorgi che potrebbe diminuire il tuo amore, allora sappi che è peccato; se vuoi fare qualcosa e ti accorgi che il tuo amore ne risulterebbe moltiplicato, sappi che la tua volontà è conforme alla volontà di HaShem. Così pensava il nostro padre Abramo”.