Il taglio della condivisione

di rav Haim Fabrizio Cipriani

(Articolo pubblicato in giugno 2014 in Keshet, Rivista di vita e cultura ebraica)

In una risoluzione del mese di Ottobre 2013, il Consiglio d’Europa ha assimilato la circoncisione a una violazione dei diritti del bambino e della sua integrità fisica. Questo avvenimento non è isolato, giacché negli ultimi anni diverse istituzioni in diversi paesi europei avevano denunciato la circoncisione in modo aggressivo. In un’Europa nuovamente percorsa da vibrazioni antiebraiche, questo avvenimento ha risvegliato antichi fantasmi, e ha mostrato la necessità di una migliore comprensione di questo e di altri atti religiosi, sia da parte degli ebrei che dei non ebrei. Per chiunque non desideri un ebraismo basato esclusivamente sulla ripetizione automatica di gesti meccanici, è quindi fondamentale un approfondimento.

La circoncisione è un atto di notevole importanza nella tradizione ebraica, tanto che, perfino negli ambienti più laici, è considerata meritevole di grande rispetto, ed è praticata anche da famiglie ebraiche non osservanti. Nelle pagine che seguono indicherò alcuni possibili paradigmi teorici di riferimento al fine di mostrare le ragioni spirituali e simboliche di tale atto. Sarebbe, però, a mio avviso, problematico affermare che la circoncisione possa assumere un solo e preciso significato nell’ebraismo, tradizione culturale che, come sappiamo, non ama il pensiero unico. Essa si presta piuttosto, come cercherò di mostrare, a una pluralità di letture possibili. Presenterò una piccola parte di queste letture, nell’intento di tracciare un breve schizzo della ricchezza delle riflessioni che accompagnano un rito così profondamente ancorato nella cultura e nella vita degli ebrei.

Prima di passare a questa analisi, è però necessario introdurre il soggetto chiarendo alcuni punti.

Considerazioni generali

In questi anni assistiamo a diverse battaglie sui particolarismi, specie di tipo religioso. Fra i soggetti più dibattuti ci sono, oltre alla circoncisione, la macellazione rituale e la liceità di indossare simboli religiosi in aree pubbliche. Questo tipo di conflitti ideologici è dovuto al grande sviluppo numerico delle comunità musulmane, perché il problema non si poneva davvero fino a quando certi atti erano compiuti dagli ebrei in proporzioni molto modeste, come fanno notare Dov Maimon e Nadia Ellis in un articolo scritto per il Jewish People Policy Institute[1]. L’Europa si misura non senza difficoltà con il multiculturalismo, e queste polemiche costituiscono senza dubbio l’espressione di questo disagio, ma possono facilmente essere poi utilizzate a fini ideologici quantomeno problematici per nutrire pregiudizi molto pericolosi.

In tale clima culturale e sociale, è a mio avviso fondamentale che ebrei aperti e moderni sappiano entrare nell’arena del dibattito, senza sottrarsene. D’altra parte però, è difficile non notare che l’atteggiamento del Consiglio d’Europa rispecchia una posizione del mondo occidentale, che è antica quanto l’impero romano. Tale impero, che si vedeva al centro del mondo, aveva ereditato dalla cultura greca un certo disprezzo per i barbari, ossia coloro che non condividevano gli stessi schemi culturali. Per questo è lecito allarmarsi quando è possibile vedere, dietro a certe posizioni, il riflesso di una volontà egemonica, quasi una sorta di imperialismo culturale che è a sua volta espressione di un complesso di superiorità spesso basato sulla superficialità e sul pregiudizio. Da un lato le diverse comunità devono imparare a coltivare l’apertura al dialogo e all’autocritica, perché non è pensabile che in nome del multiculturalismo qualsiasi cosa sia ammessa. Dall’altro però, anche le istituzioni democratiche devono saper comprendere quando certi atteggiamenti, che spesso veicolano una forma di debolezza, rischiano di compromettere equilibri delicati, di alimentare pregiudizi e di generare situazioni di grave difficoltà.

L’aspetto medico

Anche se questo aspetto va al di là degli scopi di questo articolo, alcune precisazioni si impongono.

Intanto va sottolineato che, oltre a non avere nessun tipo di conseguenza negativa dal punto di vista medico, diversi studi hanno mostrato come la circoncisione sia una pratica efficace nel ridurre il rischio di contrarre il virus HIV[2]. Questo deriverebbe dalla natura permeabile della mucosa del prepuzio, le cui cellule dendritiche sono molto sensibili al virus. Apparenetemente quindi, quando Filone d’Alessandria[3] in epoca romana raccomandava la circoncisione per motivi di salute, malgrado le limitate conoscenze mediche dell’epoca, dobbiamo pensare che i suoi argomenti avessero comunque una base reale, anche se lui applica la cosa a patologie allora più diffuse, dicendo che la circoncisione “… Assicura protezione dalla malattia severa e quasi incurabile del prepuzio detta antrax o carbonchio, così chiamato, credo, a causa del fuoco lento che instaura, e alla quale coloro che conservano il prepuzio sono più sensibili.”[4]

Va inoltre detto che la risoluzione del Consiglio d’Europa assimila la circoncisione all’escissione clitoridea o all’infibulazione, amalgama questa che purtroppo è spesso presente in questo tipo di prese di posizione. Tale confusione, di cui vedremo le radici storiche nel seguito di questo articolo, non ha ragione di essere, perché l’equivalente maschile di tali mutilazioni sarebbe l’ablazione completa del glande, e non quella del prepuzio che non ha alcun effetto sulla vita sessuale dell’individuo. La differenza è talmente evidente che quando si assimilano cose talmente diverse, sorge spontaneamente il sospetto che vi sia una volontà di screditare l’atto, e attraverso di esso coloro che lo praticano.

Un altro aspetto importante è che da un lato ci si preoccupa del benessere del bambino, che è senza dubbio un elemento fondamentale, ma dall’altro si tende a dimenticare che la costruzione del bambino necessita anche di una coscienza identitaria chiara, la cui assenza è senza dubbio più pericolosa per il suo sviluppo individuale rispetto alla circoncisione. Tale idea è presente nella posizione del General Medical Council (l’ordine dei medici britannici), secondo cui, anche senza attribuire benefici particolari di ordine medico alla circoncisione, si prende atto che la sua assenza è suscettibile di generare un malessere dovuto a difficoltà d’integrazione del giovane all’interno della sua comunità d’appartenenza. Considerati i danni psicologici che ciò può comportare, ossia l’assenza di legami con le radici e la storia familiare, solo i genitori sono in grado di comprendere la migliore scelta a tale riguardo, e secondo il General Medical Council i medici devono quindi accettare tale scelta.

A questo punto possiamo passare al cuore del soggetto, che è l’importanza e il significato della circoncisione.

Il nome

Il nome ebraico della circoncisione è Berit Milà, l’alleanza del taglio o della parola. Il termine Berit deriva da una radice verbale che significa anche « tagliare, togliere » e ciò rimanda al fatto che le antiche alleanze venivano spesso stipulate attraverso la divisione di una tavoletta o di un altro oggetto, di cui ciascuna delle due parti contraenti il patto conservava la metà, in modo tale da poter dimostrare, in caso di bisogno, di aver effettivamente sottoscritto l’alleanza in questione. Milà, quindi, significa « parola » ma anche « taglio ». L’idea è che, così come la parola esprime il mondo interiore di colui che la utilizza, così la Milà ha lo scopo di mettere a nudo la dimensione spirituale dell’individuo. Spingendoci oltre, questo significato deriva anche dal fatto che quell’insieme di grafemi che noi definiamo « parola », risulta nella lingua ebraica antica dall’operazione di découpage, di suddivisione in sezioni più piccole, di un testo originariamente scritto senza cesure, che richiede di essere sezionato per poter acquisire un senso chiaramente compresibile. Questa serie di cesure operate sul testo dà origine alle parole.

Il contesto antico

Per comprendere meglio il peso della circoncisione nella tradizione ebraica può essere utile soffermarsi brevemente sul contesto storico e sociale nel quale tale rito si è sviluppato.

Nel mondo antico, la circoncisione era largamente praticata dagli egiziani e da altre popolazioni del vicino Oriente, ma era, invece, disprezzata dai greci e dai romani, le cui sculture mostrano sovente l’organo sessuale maschile con un prepuzio ben scolpito, tranne che nel caso dei satiri o dei barbari. L’importanza del prepuzio e, in particolare, di un prepuzio abbondante, era tale che gli artisti in generale facevano attenzione a rappresentare dei prepuzi che fossero abbondantemente più lunghi del membro, in maniera pressoché innaturale, e ciò anche quando il pene veniva mostrato in posizione eretta. E’ con tutta probabilità per questa ragione, per evitare che il prepuzio si ritirasse lasciando scoperto il glande, che gli atleti greci portavano un kinodesmo, una specie di tessuto che copriva l’estremità del membro.

Claudio Galeno, medico greco del II sec. e.v. scrive : « La natura è prodiga di ornamenti soprattutto nell’uomo. Molte parti del corpo hanno una funzione ornamentale, anche se questa è spesso nascosta dalla loro funzione. Le orecchie, ad esempio, mostrano un’evidente natura ornamentale; così è, suppongo, anche per la pelle chiamata prepuzio alla fine del membro e per la carne dei glutei».[5]

Al di là dell’aspetto estetico, il membro maschile coperto dal prepuzio era considerato anche come più degno e modesto.

La cultura ellenistica considerava la circoncisione una pratica degradante e assimilava la perdita del prepuzio a una mutilazione, come possiamo constatare a proposito delle critiche avanzate da Erodoto[6] nei confronti degli egiziani che la praticavano. Possiamo inoltre osservare che scrittori come il geografo Strabone[7] o Diodoro di Sicilia[8] descrivono la circoncisione come una variante della castrazione, generalmente accompagnata dalla pratica dell’escissione femminile. Sarebbero stati, secondo loro, gli ebrei a importare queste due pratiche dall’Egitto[9]. Vediamo, dunque, come questa confusione tra circoncisione e escissione femminile, spesso evocata ancora oggi dai detrattori della circoncisione, abbia radici molto antiche. Inoltre, il fatto che Strabone mostri l’importanza della circoncisione presso gli ebrei identificandola con una forma di oppressione tirannica imposta dalla classe sacerdotale, unito a certe raffigurazioni greche in cui degli schiavi appaiono circoncisi, sembrano suggerirci che presso alcuni l’idea stessa della circoncisione poteva essere facilmente confusa con forme di controllo sessuale imposte agli schiavi tramite pratiche di castrazione più o meno pesanti, che potevano andare dall’ablazione del prepuzio fino a quella del glande[10] o di tutto il membro virile.[11]

Questo genere di background etico e culturale non poteva non generare un forte rigetto della circoncisione nel mondo greco-romano, cosa che ebbe come conseguenza i numerosi divieti di praticarla, basti pensare all’interdizione sotto il sovrano seleucide Antioco IV nel II sec. a.e.v. e sotto l’imperatore Adriano nel II sec. e.v.

E’ importante fermarsi brevemente, al fine di identificare i diversi terreni sui quali l’ebraismo dovrà affrontare tale sfida e ripensare la circoncisione come una possibile risposta a queste visioni così lontane dalla concezione ebraica del mondo e dell’uomo. Vi è da un lato l’aspetto estetico e dall’altro quello più specificamente etico, legato alla visione della sessualità, ma anche alla questione dell’intervento manipolativo sul corpo umano.

Un’esigenza per l’uomo

Riguardo alla prima questione, dobbiamo osservare che l’idea di un corpo che costituisca un modello di perfezione e di integrità assolute è alquanto lontana dal pensiero ebraico classico, come possiamo riscontrare in diverse fonti.

Nel Midrash Tanchumà (Tazria 5) troviamo un dialogo tra Rabbi Akiva e il governatore romano Turnus Rufus, che è rappresentato come il suo interlocutore in diversi passi talmudici.   Il governatore gli domanda perché Dio non abbia creato l’uomo già circonciso, se veramente desiderava che lo fosse. Per tutta risposta, R. Akiva gli mostra delle spighe di grano e del pane, poi degli steli di lino e degli abiti cuciti, spiegandogli che Dio ha donato all’uomo un potenziale, presente in natura sotto forma di materia prima, ma, soprattutto, la capacità di trasformare questa stessa materia, contribuendo così a migliorare il creato realizzandone appieno tale potenziale. Egli ha dato all’uomo la facoltà dell’intelletto affinché possa lavorare la terra per estrarne il nutrimento, e in aggiunta, le altre facoltà per realizzare con i prodotti della terra cibi più elaborati e più gustosi. Allo stesso modo, gli ha dato la capacità di comprendere che con queste materie prime può anche produrre altri oggetti, come i vestiti, capaci di rendere la sua esistenza più confortevole e gradevole. Conformemente a quanto recita il versetto «Elohim benedisse il settimo giorno e lo distinse, poiché in esso aveva cessato da tutta l’opera che Elohim aveva creato per fare » (Genesi 2:3), R. Akiva ne conclude che, al di là di ciò che la creazione offre a prima vista, il ruolo dell’uomo è quello, appunto, di fare, come recita la conclusione del versetto citato. Un fare che significa produrre, agire e trasformare il mondo, in modo da realizzare l’enorme potenziale che Dio vi ha nascosto. Questo principio vale per molti altri aspetti dell’universo, e la natura umana non fa eccezione a questo proposito, esigendo la medesima volontà di trasformazione richiesta dalla terra, per poter produrre dei frutti all’altezza delle sue potenzialità. Tornando alla conversazione tra Turnus Rufus e R. Akiva, è notevole proprio il fatto che Dio non abbia creato l’uomo già circonciso, ma che abbia, invece, lasciato questa responsabilità all’uomo stesso e, per di più, abbia preferito demandarla a un piccolo gruppo di uomini, la cui funzione doveva essere sacerdotale, e non all’umanità intera. Si potrebbe dire che Dio ha lasciato all’uomo la responsabilità di prendere in mano il proprio destino, simbolizzato in questo caso dall’organo deputato alla riproduzione, così come la scelta di modellare il proprio divenire al di là delle sue inclinazioni naturali. Di contro, programmare l’uomo in maniera automatica creandolo già circonciso, sarebbe equivalso a impedirgli di scegliere in quanto soggetto libero e autonomo.

Una volta messa in luce questa esigenza, che il pensiero ebraico sviluppa riguardo l’essere umano, appare lecito domandarsi in quale direzione e in che modo il suo agire e le sue potenzialità di trasformazione debbano essere orientate.

I veri protagonisti

Quando pensiamo alla circoncisione, troppo spesso affrontiamo il discorso dal punto di vista del bambino, che è percepito come il protagonista del rito. Invece, nella visione ebraica, i veri protagonisti sono prima di tutto i genitori, con la facoltà che è loro donata di incidere, letteralmente, il segno dell’Alleanza sui loro figli.  Questo, direi, è l’aspetto centrale di tale gesto. In un certo senso, questo atto rimarrà incompreso, perfino da un ebreo che l’abbia subito in prima persona, fino al momento in cui non deciderà di praticarlo sui suoi figli. Per il tramite di questo segno imposto ai figli, cercherà di trasmettere l’idea che il fatto di far parte del popolo di Israele è un destino pesante, che lascia un marchio profondo e indelebile. Ma, al tempo stesso, questa indelebilità costituisce anche un segno dell’eternità dell’Alleanza così come noi la consideriamo. Nel Talmud (Bavli Menahot 43b) si racconta che il re Davide, trovandosi nudo nella sala da bagno, provasse il timore di non avere più mitzvot[12] divine per accompagnarlo nel suo lavoro di crescita spirituale interiore, ma che fosse infine rassicurato nel momento in cui contemplò la circoncisione, che non si separava mai da lui. In effetti, nelle nostre scelte di vita abbiamo la possibilità di ignorare l’esistenza di questa Alleanza e delle sue implicazioni, ma essa resta, tuttavia, inscritta dentro di noi in una maniera che oltrepassa largamente i limiti della nostra ragione e della nostra logica. Il fatto di avere questo segno su di sè, senza averlo liberamente scelto, è l’unico modo in cui questa idea di appartenenza può essere veicolata, poiché traduce una presenza che ci accompagna costantemente, malgrado noi stessi. E’ il segno di una storia e di una identità che ci sono attaccate e che oltrepassano largamente il fattore strettamente religioso. Appare evidente che solo l’individuo potrà liberamente scegliere di percepire questo marchio come una condanna o come una potenzialità da realizzare, d’altronde, questo ragionamento è valido per molti altri aspetti della propria vita, anzi, forse, per la vita in generale. In tal senso è importante sottolineare un altro punto. Spesso i detrattori della circoncisione attaccano il suo carattere irreversibile, errando. Infatti, dal punto di vista fisico essa è, volendo, reversibile. Di contro lo è molto meno dal punto di vista simbolico e culturale, come la stragrande maggioranza delle scelte che i genitori compiono riguardo a un figlio che, per quanto abbia facoltà di allontanarsi da tali scelte nel corso della sua vita, ne porterà sempre su di sé i segni. Questo, lungi dall’essere una tara, costituisce una ricchezza, e in particolar modo nella cultura ebraica, secondo cui la forza più grande per l’individuo è quella di costruirsi sulle scelte di generazioni di individui che lo hanno preceduto determinando una certa direzione. Per questo gli Avot, i progenitori d’Israele, sono spesso evocati nella liturgia ebraica (penso in particolar modo all’inizio della Amidà, la preghiera centrale quotidiana), perché simboleggiano il primo slancio di un cammino, che come ogni cammino non è certo esente da errori e imperfezioni, ma sul quale tutti noi ci costruiamo.

Verso l’integrità

Quando Dio chiede ad Avram di circoncidersi, nel capitolo 17 del libro della Genesi, questa prescrizione è introdotta dalla frase : « Cammina davanti a me e sii integro » (Gen 17 :1), ma come può una ferita, una mancanza, contribuire alla possibilità di essere «integro»? Per comprendere meglio dobbiamo ricordare che il termine ebraico Orlà, prepuzio, designa una sorta di chiusura e di blocco, un ostacolo che impedirebbe la piena espressione di una facoltà. Mosè descrive il suo difetto nel parlare, qualificandosi come Arel Sefataim « incirconciso nelle labbra » (Esodo 6:12), e la Torà parla altrove di Orlà del cuore (Deuteronomio 10:16) e delle orecchie (Geremia 6:10). La scelta di questi due organi non è casuale. Se consideriamo che il cuore presso le civiltà antiche era considerato come la sede delle emozioni ma anche del pensiero e della volontà, il vero centro psichico dell’individuo, riusciamo a capire ancora meglio la richiesta avanzata dalla Torà di sbloccare le potenzialità dell’individuo, liberandolo da questa Orlà, questa membrana che gli impedisce di aprirsi all’altro, di « concepire » l’altro, oltre che di ascoltarlo, invece che limitarsi ad ascoltare solo se stessi.

Lo stesso vocabolo Orlà è utilizzato per gli alberi di cui è vietato consumare i frutti durante i primi tre anni di vita (Levitico 19:23). Vediamo, dunque, che anche in questo caso l’immagine evocata è quella di un potenziale nascosto, che è presente ma non ancora pronto a sbocciare pienamente. Non è un caso, infatti, che perfino la fertilità di Abramo si sbloccherà solo dopo la circoncisione, quasi a suggerire un legame tra le due cose.

Ora, uno dei punti centrali dell’ebraismo tradizionale è quello secondo cui ogni principio debba necessariamente esprimersi attraverso il corpo, poiché una convinzione interiore, pur profonda e sincera, non può in alcun modo essere considerata di per sé sufficiente. E’ per questa ragione che diventa necessaria una ferita reale, un taglio tangibile, affinché l’individuo porti su di sé costantemente questa esigenza di vulnerabilità e di apertura verso l’altro, esigenza imperiosa che solo una vera ferita può veicolare. Vivere in maniera integra significa anche vivere pienamente, in profondità e non in superficie, accettando di rinunciare a una parte di protezione, che è talvolta rassicurante, ma che di fatto ci impedisce di vivere in modo pieno.

In questo senso è anche interessante notare che la richiesta fatta ad Abramo come introduzione alla circoncisione, ossia quella di essere/divenire integro, viene formulata con una parola ebraica espressa al plurale, tamim, e non al singolare, tam. Quasi a ricordare che l’integrità non può riguardare solo l’individuo, ma passa necessariamente attraverso la relazione e la condivisione con gli altri, di cui anche il gesto di offrire una parte di sé (il prepuzio, appunto) è simbolo. In questo modello di alleanza, una parte di sé viene condivisa con l’Altro, realizzando una nuova forma di integrità che è quindi anch’essa condivisa.

Il sangue

Vorrei infine soffermarmi su un ulteriore aspetto specifico della liturgia della circoncisione, che ci ricorda l’importanza di un altro elemento : il sangue. In questa cerimonia, immediatamente dopo aver effettuato l’atto chirurgico, si recita un passo tratto dal libro di Ezechiele : «Passai vicino a te, ti vidi mentre ti dibattevi nel tuo sangue e ti dissi: vivi nel tuo sangue! Ti dissi : vivi nel tuo sangue! » (Ezechiele 16:6)

Nella liturgia del Brit Milà la citazione si ferma qui, ma il seguito del passo recita : «Ti ho moltiplicata per miriadi, come l’erba dei campi. Crescesti, ti facesti grande e divenisti di una bellezza perfetta; i tuoi seni si formarono e tu giungesti alla pubertà. Ma eri nuda, completamente nuda». La fanciulla di cui si parla nel passo, non è altro che una metafora per indicare il popolo di Israele e il suo stato di estrema fragilità nel momento in cui Dio l’ha adottato. Negli scritti biblici e, in particolare nei testi dei profeti, Israele è solitamente paragonato a una donna. Alcuni hanno visto in questo il rifiuto di un androcentrismo che era piuttosto diffuso presso i popoli antichi, soprattutto presso coloro che occupavano una posizione di dominio, giacché il potere era associato alla forza e all’immagine maschile. Ciò che appare centrale nel passo di Ezechiele, anche in virtù del fatto che è stato scelto nel rito della Milà, è la constatazione che il sangue di cui si parla sia femminile. Al neonato maschio che è appena stato circonciso viene applicata una qualità femminile, quasi fossimo in presenza di una trasformazione. Questo aspetto ha suggerito a Daniel Boyarin, professore presso l’University of California, che vi sarebbe nella circoncisione una sorta di femminilizzazione del maschio, forse causata dall’importanza data in molte antiche culture alla virilità e, in particolare, a una forma di virilità autoritaria e intrusiva. Secondo tale lettura, l’ebraismo proporrebbe, invece, una visione alternativa, in cui il maschio viene guidato su un cammino simbolico d’integrazione del proprio lato femminile, attraverso una perdita di sangue che lo renderebbe in qualche modo più simile a una donna. Secondo il prof. Boyarin si tratterebbe anche di celebrare il fidanzamento/alleanza tra un Israele femminilizzato e un Dio simbolicamente maschio, una metafora assai presente nella Torà. Io vi vedrei, piuttosto, una forma di Imitatio Dei, presso un popolo che considera Dio come il Rahamim, il «maternamente misericordioso», come viene regolarmente chiamato nella Torà. D’altra parte, l’idea di un uomo che si impegni a fare dei suoi figli delle creature più accoglienti e portatrici di vita, come solo una madre è capace di essere, è per un uomo più facile a dirsi che a farsi. Dovremmo, forse, cercare in questa direzione il senso del passo di Esodo 4 in cui Moshé non è in grado di circoncidere suo figlio, mentre, invece, Tzipporà, sua moglie, riesce a farlo. Questo passo sembrerebbe suggerire che a volte una donna ha più attributi di uomo per tentare di contenere la virilità potenzialmente intrusiva di suo figlio.

Contro l’abuso

Proseguendo in questa direzione, la scelta del pene come sede di questa vulnerabilità fondatrice ci appare, infine, motivata, poiché rappresenterebbe l’abuso possibile, la tendenza al dominio e al possesso dell’altro. Sappiamo quanto l’eccitazione sessuale costituisca una delle forze che più pericolosamente fanno perdere all’uomo (con la u minuscola) il senso dei suoi limiti. Portare questo marchio esattamente là dove la vita viene generata, sull’organo che più di ogni altro può esprimere questo bisogno di dominio e di possesso, è anche un modo per ricordare all’ebreo che il cammino della Torà dovrebbe allontanarci dall’idea del possesso e insegnarci, piuttosto, la reciprocità. E niente ha più valore del fatto di iniziare questo percorso attraverso l’atto di offrire una piccola parte della propria persona come simbolo di questa volontà di condivisione e di rinuncia al possesso, un tratto della personalità che un genitore ebreo dovrebbe aiutare i suoi bambini a sviluppare. E ciò anche contro la loro volontà, come, del resto, per qualsiasi atto educativo.

Quest’ultimo aspetto mi suggerisce un’ulteriore riflessione. Il rapporto tra padre e figlio non è sempre tutto in discesa. E’ disseminato di insidie come qualsiasi altra relazione, ma ciò vale, in particolare, nelle relazioni di parentela. Conosciamo tutti la teoria di Freud, nota come complesso di Edipo, secondo la quale una sorta di ostilità si installerebbe fin dall’inizio nella relazione tra padre e figlio, poiché entrambi devono contendersi l’amore e l’attenzione della madre. E’, infatti, proprio allora che si sviluppa nel bambino una certa paura della castrazione. Non bisogna, peraltro, dimenticare che il figlio è colui che sopravviverà al padre e un giorno dovrà recitare il Qaddish per lui. La sua nascita, foriera di gioia, ricorda però anche al padre che la morte si avvicina, con l’idea che il figlio un giorno o l’altro prenderà il suo posto. Questo aspetto è presente in filigrana nel racconto biblico in cui Avraham circoncide il figlio Itzhak e, nel capitolo successivo, quasi lo sacrifica sull’altare. E’ un racconto che evoca anche l’angoscia, propria a ogni generazione, di dover lasciare il posto a un’altra generazione che è percepita come non all’altezza del compito da svolgere. Questo aspetto è probabilmente ancora più pronunciato nel caso di Avraham, in quanto egli è un precursore, per cui il ruolo di colui che porterà avanti il suo progetto è ancora più critico. In questo senso, la Milà costituirebbe anche una canalizzazione di queste energie negative e dell’aggressività del padre nei confronti del figlio e, al tempo stesso, una forma di assicurazione che questa violenza, contenuta e limitata, rimarrà la sola autorizzata. Giacché ogni genitore è portato, in un determinato momento della vita, a ferire suo figlio; è impossibile che ciò non accada. Quindi questo atto costituisce anche un patto davanti a Dio, allo scopo di attestare che la violenza che il padre userà verso suo figlio sarà circoscritta e giammai abusiva. A partire da quel momento, il padre saprà accettare il suo ruolo di rappresentante e guardiano del passato, disposto a condividere il suo posto con il figlio e persino a lasciarglielo, quando i tempi saranno maturi. La ferita diverrà allora l’apertura a una relazione diversa, a una nuova integrità condivisa, in cui il padre saprà lasciar schiudere il potenziale dell’a-venire, suo figlio, senza ostilità.


[1] http://jppi.org.il/uploads/The_Circumcision_Crisis-Challenges_for_European_and_World_Jewry.pdf

[2] http://pediatrics.aappublications.org/content/119/4/821.full; http://www.inserm.fr/index.php/espace-journalistes/le-programme-de-circoncision-masculine-a-orange-farm-en-afrique-du-sud

[3] (Alessandria d’Egitto, 20 a.C. circa – 45 d.C. circa), filosofo ebreo di cultura greca.

[4] Filone d’Alessandria, De specialibus legibus 1

[5] Galeno De usu partium corporis humani 11.13. Cit. in Hodges FM. The Ideal Prepuce in Ancient Greece and Rome: Male Genital Aesthetics and Their Relation to Lipodermos, Circumcision, Foreskin Restoration, and the Kynodesme. Bulletin of the History of Medicine 2001;75:375–405.

[6] Storico greco, IV sec. a.e.v.

[7] I sec. a.e.v.

[8] I sec. a.e.v.

[9] Strabo, Geography 16.2.37. En The Geography of Strabo, trans. Horace Leonard Jones, 8 vols. (Cambridge: Harvard University Press, 1917–32) vol. 7:285. Strabone parla della circoncisione femminile praticata dagli ebrei in ibid. 16.4.10 (Jones, vol. 7: 323). Cf. Diodorus Siculus, The Library of History 1.28, en Diodorus of Sicily, trans. C. H. Oldfather, 12 vols. (Cambridge: Harvard University Press, 1933–67), 1: 91.

[10] Strabo, Geography 16.4.5 (Jones [n. 44], 7: 315), 16.4.10 (Jones, 7: 323).

[11] Diodorus Siculus, Library of History 3.32 (Oldfather [n.44 ],2:173).

[12] Responsabilità