Gratitudine

di rav Haim Fabrizio Cipriani

“In quei giorni, Moshè, diventato adulto, uscì verso i suoi fratelli, e vide le loro sofferenze; notò un uomo egiziano che percuoteva uno degli ebrei suoi fratelli. Egli volse lo sguardo di qua e di là e, visto che non c’era nessuno, percosse l’egiziano e lo nascose nella sabbia.

Il secondo giorno uscì, vide due ebrei che litigavano e disse a quello che aveva torto: “Perché percuoti il tuo compagno?”. Quello rispose: “Chi ti ha costituito principe e giudice sopra di noi? Vuoi forse uccidermi come uccidesti l’egiziano?”. Allora Moshè ebbe paura e disse: “Certo la cosa è nota”. Quando il faraone udì il fatto, cercò di uccidere Moshè, ma Moshè fuggì dalla presenza del faraone, e si fermò nel paese di Midiàn e si mise seduto presso un pozzo.” [Es. 2:11-15]

La prima cosa che colpisce è che il gesto di Moshè sia conosciuto. Chi mai ha potuto diffondere la notizia? Forse un testimone non visto. Ma vi è una persona di cui sappiamo per certo che era presente, si tratta dell’ebreo che Moshè salva dalla violenza dell’egiziano. Tutti gli indizi vanno in questa direzione. In effetti, l’essere debitori nei confronti di qualcuno e dover mantenere la gratitudine è, per alcuni, un peso insostenibile. Qualcosa di simile avviene quando il nuovo faraone egiziano “non conosce Giuseppe”, e con lui tutto l’Egitto preferisce dimenticare il ruolo dell’illustre viceré ebreo salvatore del paese. Moshè impara che spesso sono proprio le persone che hanno ricevuto aiuto a danneggiare chi le ha aiutate, a ribellarsi alla dipendenza che la gratitudine comporta, per potersi finalmente liberare del peso di dover essere riconoscenti. Anche perché il fatto di puntare il dito sulle inevitabili mancanze dell’altro, della persona che nei loro confronti si trova in condizione di superiorità, li distrae dalle loro mancanze e libera l’oggetto della gratitudine dalla perniciosa idealizzazione che caratterizza da sempre questo tipo di relazione. Tutto il popolo ebraico, una volta uscito dall’Egitto, si comporterà in tal modo con la sua guida, e con la Trascendenza stessa. Quindi Moshè, e con lui ogni educatore e ogni leader, deve imparare questa amara lezione fin dall’inizio del suo percorso.

L’arte di riconoscere che siamo essenzialmente in debito, è molto delicata. Perché va esercitata in maniera raffinata, conservando la coscienza di quanto ricevuto senza mai cadere nell’idealizzazione, della fonte di quel che abbiamo ricevuto. Quando ciò accade, il peso diviene insostenibile e genererà un comportamento come quello appena visto. Ma la causa è sempre da ricercarsi nella mancanza di equilibrio di chi ha ricevuto, raramente di chi ha dato.

Non è un caso che la parola yehudì, ebreo, significhi proprio “colui che riconosce/è grato”. La vita ebraica si propone infatti di costruire un cammino ragionato di apprendimento di tale disciplina, l’arte di ricevere con gratitudine realistica, la cui alternativa è l’idolatria del sé o dell’altro da sé.